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Torna indietro    da "LA PREVIDENZA" del 23/01/2007

L'immigrato clandestino che accudisce i figli non può essere espulso

L’immigrato clandestino che deve accudire i figli non può essere espulso dal territorio nazionale. Questo è quanto hanno deciso le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 22216 del 26.11.2006, accogliendo il ricorso di un cittadino marocchino che era stato raggiunto da un provvedimento di espulsione emesso dal Prefetto di Pesaro e Urbino. Nel giudizio di primo grado il cittadino straniero aveva ottenuto di poter restare in Italia per un periodo di tre anni, eventualmente prorogabili, ma in secondo grado la Corte di Appello di Ancona aveva revocato il provvedimento. L’interessato ha allora proposto ricorso per Cassazione, invocando la necessità di rimanere in Italia per le esigenze di tutela della salute e della crescita psico-fisica della figlia minore, iscritta nel permesso di soggiorno della madre (anch’essa marocchina), asserendo che, pur nelle sue condizioni di clandestinità, aveva sempre prestato le cure e l’affetto necessari alla figlia, provvedendo alle sue necessità, all’avvio alla frequenza alla scuola materna e sostenendo, pertanto, che il suo distacco avrebbe comportato un grave trauma nella minore. Motivazione queste ultime condivise dalla Suprema Corte, secondo cui il provvedimento di proroga della permanenza dello cittadino straniero in Italia, poiché “ha ad oggetto non già un interesse generico del minore, ma un interesse specifico e pressante” esso, se esistente, và salvaguardato, se pur per un periodo determinato, anche in deroga alle disposizioni in materia di immigrazione. Orbene, nella fattispecie in argomento, la permanenza del ricorrente sul territorio italiano và autorizzata – sempre ad avviso dei giudici delle Sezioni Unite della Cassazione – in quanto si fonda dall’accertamento concreto del grave pregiudizio cui la minore sarebbe incorsa a seguito dalla perdita improvvisa della figura paterna per effetto della sua espulsione.

(Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza 26.11.2006 n° 22216)


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