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Torna indietro    da "EPAS NOTIZIE" del 28/01/2013

LA QUESTIONE “CONTRIBUTI SILENTI”
La parola del giorno in ambito previdenziale pare essere “silenti”, aggettivo magari di per sé poco significativo, almeno nel settore pensionistico, se non servisse per accompagnare un altro termine, questo sì pregno di significato per l’universo della previdenza, cioè “contributi”. L’espressione “contributi silenti”, infatti, designa una questione assai spinosa, una vicenda che si riversa sulla pelle di milioni di contribuenti in maniera beffarda.

 
L’allarme è sottolineato da una delle massime autorità del settore, ossia il direttore generale dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, Mauro Nori, il quale ha affermato che l’ipotesi di restituzione di tali contributi ai lavoratori che li hanno versati è pressoché impossibile, poiché questo tipo di soluzione avrebbe come risultato di mandare l’Inps in default: la platea di cittadini coinvolti, infatti, è nell’ordine dei milioni, mentre il valore dei contributi in ballo dovrebbe aggirarsi intorno ai 10 miliardi di euro. Per la cronaca, è bene chiarire che per contributi silenti si intendono quei contributi versati regolarmente dai lavoratori per ottenere una prestazione previdenziale e che invece non daranno vita ad alcuna pensione né (come detto dal direttore generale dell’Inps Mauro Nori) saranno rimborsati. 
 
“Le novità legislative nel campo della previdenza hanno creato sicuramente situazioni difficili da gestire –dice Denis Nesci, Presidente Nazionale del Patronato Epas- e speriamo che in tempi brevi si provveda a rimuovere tutti quei dubbi e quelle incertezze che purtroppo creano preoccupazioni aggiuntive ai cittadini. Le novità rilevanti riguardo i requisiti utili per maturare il diritto pensionistico –continua Nesci- hanno generato diversi casi di lavoratori fortemente penalizzati, per cui l’augurio è che presto si trovi la giusta quadratura affinché il sistema previdenziale possa trovare una certa stabilità senza che si reputi necessario intervenire con riforme molto frequenti”.
 
Un esempio potrà illustrare meglio la situazione: la riforma delle pensioni del 1993 concedeva a chi avesse versato almeno 15 anni di contributi entro il 1992 o a chi entro la stessa data avesse iniziato a versarli, di mantenere il requisito dei 15 anni di contribuzione. Ora, molti lavoratori che ricadevano in questa ipotesi stavano aspettando il compimento dei 60 anni di età per poter andare in pensione, ma la riforma Fornero richiede un minimo di 20 anni di contributi versati, invalidando di fatto quanto stabilito in precedenza. Altro esempio: fino al 2011, nel sistema contributivo, servivano 5 anni di contributi per ottenere la pensione, ma dopo la riforma Fornero dal 1 gennaio 2012 occorrono 20 anni di contribuzione, mentre 5 anni sono sufficienti solo per chi va in pensione a 70 anni.
 
Per scongiurare il concreto pericolo di perdere quanto versato fino ad oggi, i lavoratori sono obbligati a rifugiarsi nella prosecuzione volontaria, quindi nel pagamento dei contributi mancanti all’Inps, anche in assenza di un rapporto di lavoro; oppure a ricorrere alla totalizzazione, in modo tale da trasportare i contributi pagati nel nuovo lavoro. Inoltre, la contribuzione volontaria è una strada percorribile solo a patto che il lavoratore possa vantare almeno 5 anni di contribuzione.
 

 


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