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Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il cosiddetto “decreto dignità” (d. l. n.87 del 12 luglio 2018), entrato in vigore il 14 luglio, ma che dovrà essere necessariamente convertito in legge entro 60 giorni.
“L’entrata in vigore del decreto dignità non ha placato gli animi e il dibattito rimane ancora acceso: tante sono le critiche rivolte da più parti e tante le misure significative che dovranno essere approvate definitivamente a settembre e che pertanto renderanno il clima politico ancora più rovente in questa prima estate del nuovo Governo”.
Queste sono le parole espresse dal Presidente Nazionale del Patronato EPAS, dopo l’approvazione del decreto estivo, che ha introdotto nuovi elementi su delicate tematiche come quella relativa ai contratti a termine, alla salvaguardia dei livelli occupazionali, al contrasto alla delocalizzazione delle aziende e al fenomeno della ludopatia e infine le misure in materia di semplificazione fiscale.
Andando ad analizzare i punti più salienti: il primo riguarda proprio la reintroduzione delle causali per i contratti a tempo determinato di durata oltre 12 mesi incluse le proroghe, modificando di fatto il Jobs Act ossia il D.lgs 81/2015. Questo punto ha scatenato molte polemiche soprattutto dopo la relazione tecnica allegata al testo che ha ipotizzato la perdita di 80 mila posti a tempo determinato in 10 anni. In sostanza, ciò che dice la norma è che al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Al contratto può essere apposto un termine avente una durata superiore comunque non oltre 24 mesi solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività per esigenze sostitutive di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria. Se il datore di lavoro con atto scritto fa riferimento a queste condizioni, già a partire dal primo contratto sarà possibile apporre un termine, comunque, non superiore a 24 mesi, rispetto alla disciplina previgente che prevedeva 36 mesi. La causale non serve per i rinnovi dei contratti di attività stagionali, al contrario la nuova regolamentazione vale per i contratti a tempo determinato in somministrazione e per il rinnovo o le proroghe dei contratti attualmente in corso. Inoltre verranno accettate fino a 4 proroghe a differenza di quanto accadeva con la precedente normativa che ne prevedeva fino a 5. Altra novità che preoccupa e non poco le aziende riguarda il contributo aggiuntivo dello 0,5% per i rinnovi dei contratti a tempo determinato, nonché per quelli in somministrazione. Tale aumento è stato aggiunto a quello già introdotto dal 2013 dell’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per i contratti a termine. A queste norme se ne aggiunge una non di poco conto sui licenziamenti ovvero è aumentato l’importo dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro dovrà pagare in caso di licenziamento illegittimo, stabilendo il minimo in 6 mensilità e il massimo in 36 (a differenza dei valori finora previsti che erano fissati, rispettivamente, in 4 e in 24 mensilità).
Se per il Governo tali vincoli e costi aggiuntivi sui rapporti a tempo introdotti hanno l’intento di voler scoraggiare il ricorso a tali tipologie contrattualistiche e l’utilizzo dei contratti a tempo indeterminato, dal punto di vista delle aziende tale imposizione non avrà l’effetto desiderato anzi comporterà lo scoraggiamento di nuove assunzioni.
Altre e varie sono le misure contenute in tale decreto: dal contrasto alla delocalizzazione delle imprese che hanno beneficiato di aiuti di Stato, al taglio degli aiuti alle aziende che riducono l’occupazione di oltre il 10% nei primi cinque anni dopo il completamento dell’investimento, al contrasto del fenomeno della ludopatia, fino alla misure in materia di semplificazione fiscale, attraverso la revisione del “redditometro” al fine di contrastare l’economia sommersa, dello “spesometro” che rimanda la scadenza per l’invio dei dati delle fatture emesse e ricevute, fino all’abrogazione dello “split payment” ossia l’eliminazione dell’applicazione del meccanismo di scissione dei pagamenti per le prestazioni di servizi nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
“Tante sono state le polemiche che hanno accompagnato l’approvazione del decreto dignità e sicuramente in sede di conversione ci saranno cambiamenti richiesti da più parti-dichiara Denis Nesci, Presidente Nazionale del Patronato Epas- purtroppo bisognerà attendere per comprendere gli effetti e le ripercussioni che le misure introdotte sui contratti avranno sul mercato del lavoro. È evidente che se l’intento è il contrasto alla stipula di contratti a tempo determinato, non si può sottovalutare l’innalzamento del costo del lavoro nonché l’aumento dei costi in caso di interruzione del rapporto stesso. Nulla è stato inserito sulle pensioni - conclude il Presidente Nesci- pertanto, attendiamo i prossimi provvedimenti sul tema che a noi, come Patronato preme di più, ovvero la riforma del nostro sistema previdenziale”.